di Paolo Gervasi
Nel capitolo XIV dei Promessi Sposi Renzo, reduce dall’assalto ai forni, viene portato da una spia all’osteria della Luna Piena: surriscaldato dagli eventi e dal vino, e imbeccato dai delatori che vogliono incastrarlo, Renzo straparla. Accusa tutti i potenti e denuncia le tante forme del sopruso, prendendosela soprattutto con gli strumenti privilegiati della sopraffazione: carta, penna e calamaio. La scrittura e il sapere che servono alla formulazioni delle leggi si identificano integralmente, agli occhi di Renzo, con gli arbitrî del potere: le leggi scritte sanciscono soltanto che “comanda chi può, obbedisce chi vuole.” La penna è utilizzata dai potenti per “infilzare” le parole di un bravo giovane e inchiodarle sulla carta, trasformandole in accuse. E per far perdere il filo del discorso alla gente del popolo “lorsignori” sono sempre pronti a infilare a tradimento nei ragionamenti qualche parolone di quel loro latinorum, lingua morta la cui oscurità è funzionale alle esigenze dell’oppressione. Quando, infine, gli eventi che separano i due “promessi” li costringono a tentare di comunicare a distanza, le lettere che Renzo e Lucia si scambiano sono sempre deformate dal “letterato”, prete, farmacista o erudito aristocratico, che le trascrive, e che si sente autorizzato, in nome della sua competenza tecnica, ad aggiungere, togliere, modificare, interpretare le parole dettate dai due poveri “illetterati”.
Nelle sue Variazioni sulla scrittura Roland Barthes ricorda che la scrittura nasce non come strumento di comunicazione, ma come tecnica di occultamento: attraverso la difficoltà dei segni le caste sacerdotali per secoli hanno nascosto alla comunità la verità delle leggi e la sostanza segreta del sapere. Quando non è stata direttamente, la scrittura, il veicolo di pratiche magiche e di incantatorie manipolazioni della realtà. Del resto che la scrittura possa nascondere un potere occulto è cosa fin troppo evidente ai popolani di Manzoni: l’ispettore di sanità che, nella Storia della colonna infame, viene accusato di essere un “untore”, un agente malefico di diffusione della peste, desta i primi sospetti proprio perché si muove per le strade impugnando “carta, penna e calamaio”.
L’ostilità popolare per la conoscenza e per i suoi strumenti ha tormentato a lungo Manzoni e gli scrittori impegnati nella costruzione dell’Italia unita. Il suo stesso romanzo, I Promessi Sposi, concepito secondo criteri estetici e linguistici che potessero estenderne la fruizione, ha conosciuto una “impopolarità” e una incomprensione che tuttora lo relegano in una posizione paradossale nell’ambito della cultura italiana: al di fuori dell’obbligo scolastico, viene percepito come un illeggibile monumento.
Il programma “risorgimentale” di diffusione della cultura, che insieme alla definizione di una lingua nazionale doveva accompagnare e sostenere il progetto di unificazione politica e territoriale dell’Italia, è sempre rimasto, è il caso di dirlo, “lettera morta”. Secondo la celebre formulazione di Antonio Gramsci, l’intellettualità italiana non è mai stata in grado di costruire una cultura autenticamente nazional-popolare, che non fosse soltanto una banalizzazione e una degradazione della cultura “alta”. Il “popolo”, le classi subalterne, e successivamente anche larghissima parte della piccola e media borghesia (quella italiana è, per Pasolini, “la borghesia più ignorante d’Europa”), sono rimasti sostanzialmente fedeli all’idea di Renzo: il sapere è un imbroglio e la scrittura un impiccio, la cultura una perdita di tempo, quando non il complotto di una “casta” che la impone agli altri per mantenere i propri privilegi. Come all’inizio dei tempi, agli occhi della “maggioranza” è rimasto inscindibile il legame occulto tra sapere e potere. Chi sa utilizza il sapere a proprio vantaggio, quasi sempre in modo fraudolento, e i tentativi di alfabetizzazione sono stati accolti per lo più come episodi di “colonizzazione”, di interferenza del potere centrale nell’alterità e nell’indipendenza delle culture “popolari”.
Questo stato di cose del resto non è dovuto soltanto all’inclinazione antropologica fissata nella sentenza che Leopardi, ne La ginestra, cita dal Vangelo di Giovanni: “e gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”. L’avversione per il sapere è radicata anche, e forse soprattutto, nell’incapacità e nel rifiuto delle classi colte di elaborare un progetto di alfabetizzazione non autoritario, non paternalistico, realmente orientato all’emancipazione. L’idea prevalente di diffusione della cultura attiva nell’Italia post-unitaria e nel corso di quasi tutto il Novecento, infatti, è stata sostanzialmente gerarchica, fondata sulla trasmissione verticale di un sapere elaborato “in alto” e trasferito forzosamente, attraverso un processo di semplificazione, verso il basso.
A partire da una situazione di questo tipo, quindi, è stato facile per le forze che hanno conquistato il potere in Italia alla fine del secolo scorso fare presa sulla popolazione attraverso un programma piuttosto esplicito di de-alfabetizzazione e di disattivazione dei saperi acquisiti, rappresentati come luogo di incubazione di privilegi incomprensibili e dannosi per la maggioranza attiva e “produttiva” del paese. La crisi attuale dell’alfabetizzazione è il risultato di un potenziamento dell’ostilità antica nei confronti del sapere (l’ostilità di Renzo), assecondata da una strategia politica che non solo ha smesso di contrastarla, interrompendo la continuità dei sistemi paternalistici e verticistici di alfabetizzazione, ma l’ha direttamente portata al governo, l’ha assunta come programma di “riforma” anticulturale della società.
Su questo contesto arriva ora ad agire la trasformazione in atto di tutte le pratiche della conoscenza, la ristrutturazione radicale degli strumenti e quindi dello spazio del sapere, che prevede dinamiche di trasmissione completamente diverse da quelle tradizionali. I nuovi mezzi di comunicazione hanno determinato una vera e propria mutazione, che sta vanificando anche la posizione privilegiata della vecchia intellettualità detentrice del monopolio alfabetico, non più in grado di controllare e di appropriarsi di tutti i segmenti in cui avviene la produzione dei significati. L’originaria e sempre attuale esigenza “manzoniana” di elaborare strategie di diffusione democratica, ma non demagogica, della conoscenza, si sovrappone oggi alla necessità di individuare una programma di “alfabetizzazione” diffusa, che tenga conto dell’immersione in un ambiente cognitivo dominato da modalità di apprendimento sbilanciate verso un paradigma “post-alfabetico”.
La fine del monopolio alfabetico comporta il vantaggio potenziale che non saranno più i possessori di “carta, penna e calamaio” a dover alfabetizzare le “masse”, con i risultati disastrosi registrati fin qui: si potrà innescare un processo di educazione reciproca, di scambio e di intersezione di pratiche e di linguaggi, che gestito bene potrebbe spezzare l’odiosa verticalità del sapere, e attenuare quindi la secolare impopolarità della conoscenza. Se i dotti di un tempo vorranno ancora comprendere qualcosa del mondo, dovranno andare a lezione da Renzo. Magari lí, tra i tavoli dell’osteria, troveranno anche il modo di attenuare la sua diffidenza per i segni tracciati sulla carta utilizzando la penna e il calamaio.