QUANDO LE CARCERI ENTRANO NELLE SCUOLE POLITICHE

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Quando le carceri entrano nelle scuole politiche

di Paolo Costa

 

Jacopo Fiori ha 24 anni, studia Giurisprudenza a Cagliari e vanta una sincera passione politica. Tra i temi che lo coinvolgono, quello delle carceri. Fatto particolarmente raro tra chi milita in un partito politico, ma per Jacopo è un interesse che parte da lontano, fin dai tempi in cui, ancora adolescente, il babbo gli faceva ascoltare Radio Radicale. Da qui è partito, coinvolgendo altri ragazzi che come lui fanno politica, e che ora preparano la seconda edizione del Laboratorio di Partecipazione Politica (una scuola politica assai originale, in cui lo scambio tra docenti e discenti è mutuo, paritario e orizzontale), restituendo dignità ad un tema che viene ritenuto spesso irrilevante, per non dire scomodo, sia dalla classe politica che dall’opinione pubblica.

Partiamo proprio da qui: perché è importante parlare di carceri? «Bisogna parlare di carceri perchè è giusto così. Questo dovrebbe essere – racconta Jacopo – il primo passaggio logico che un partito dovrebbe compiere. E se è giusto parlarne ma pensiamo che non porti abbastanza voti il problema non si può risolvere non parlandone. la prima cosa da fare è chiarirsi le idee, per poi essere capaci di spiegare ai cittadini quali sono i vantaggi di avere un sistema penitenziario efficiente».

 

«Un carcere che funziona è quello che produce libertà individuale e sicurezza collettiva. In cui viene praticato il reinserimento sociale, che favorisce la coesione e restituisce speranza». Jacopo auspica una struttura che permetta di abbattere il fenomeno della cosiddetta “recidiva”, la probabilità di commettere altri reati da parte di un detenuto, una volta scontata la pena. Le carceri sovraffollate, in cui non esistono circuiti separati per i detenuti in base ai reati commessi, in cui non sia possibile istruirsi e fare percorsi di formazione professionale, hanno un effetto moltiplicatore della criminalità, spesso trasformando ragazzi emarginati che finiscono in carcere con un diploma in furto in criminali con la laurea in rapina a mano armata.

Ma cosa dovrebbe fare il prossimo per migliorare la condizione dei detenuti e quindi abbattere la recidiva? «In primo luogo: finanziare la legge Smuraglia sulle attività lavorative dei detenuti e ricorrere maggiormente alle pene alternative  Per raggiungere un doppio obbiettivo: dare un senso alla pena e abbattere la recidiva, creando dunque maggior sicurezza. La recidiva dei “lavoranti” è al 20%, così come quella di chi sconta la pena con misure alternative alla detenzione (dati dell’osservatorio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sulle misure alternative, citati dal Ministro Severino nella conferenza stampa del 26 Sett. 2012). La seconda: riprogettare e ricostruire le carceri. Molte strutture son state trasferite fuori dai centri urbani, quasi a volerle nascondere alla vista della “gente bene”, esattamente come si fa con le discariche. Le carceri invece devono stare all’interno delle città, perché devono continuare a costituirne anche fisicamente una parte integrante, così anche il detenuto deve avere come prospettiva quella di rientrare a far parte della società, non sentendosi emarginato a vita. Il problema non è solo la collocazione delle strutture detentive, ma anche la loro progettazione. In Italia il carcere modello è quello di cascina Bollate, dove la recidiva è del 10%  e questo risultato è legato intrinsecamente alla struttura interna, che è orientata alla rieducazione, permettendo in questo modo di abbattere la recidiva.»

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