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Satolli, accasciati sul divano, babbo e zii tuonano sulle vicende del gommoso di Arcore e dell’austero tecnocrate. La politica come burletta oppure come frigido atto amministrativo: dov’è finita la passione, dove gli ideali? Un tremito in mezzo ai cocci delle noci, riemergete di botto dalla catalessi digestiva: voi ne avete sentito parlare di sicuro, di passione politica e di ideali, e c’era pure un sacco di gente! Cercate di ricordare le parole giuste. «Come diceva Pasolini, questo stanco paese…» – o era invece Carmelo Bene? E poi, com’è che andava avanti? «Federico Aldrovandi e Carlo Giuliani…» – poi niente, buio totale. Ecco, trovato: «Mi sono rotto il cazzo!» La grappa, comunque butti, era ottima quella sera lì ed è ottima oggi.

Qualcuno di voi si è lamentato col sottoscritto perché nella classifica dei migliori album del 2012 non è stato menzionato manco un esemplare di rocker tricolore. Sarò forse esterofilo? Parliamoci chiaro, in Italia si fa tanta buona musica. Solo che raramente è quella che ascoltate voi. L’ambient di Attilio Novellino, i bordoni chitarristici di Trees of Mint e le canzoni di uno come Edda, per dire tre dei miei favoriti in quest’anno qui (ma anche Fuzz Orchestra, Comaneci, Putiferio, il solito Dargen D’Amico e il surrealismo dei St. Ride). A leggere le rivistine piene di pubblicità e a guardare qualche statistica, i nomi più citati sono però decisamente altri. Dopo le invettive di un anno fa, rivolte ai piagnistei tamarri di Luci della centrale elettrica e Bugo, ecco un altro pezzo dedicato alla monnezza italica più flatulente. Due gruppi a incarnare le peggiori tentazioni de noantri, e un sottotitolo: parlare tanto, parlare malissimo.

Il Teatro degli Orrori è un quartetto rock capitanato dal tonitruante Pier Paolo Capovilla, una specie di caricatura bolsa dei grandi intellettuali dell’Italia che fu. Uno che parla tale e quale Carmelo Bene (nel senso che ne imita in maniera sfacciata timbro vocale e tic) e che prepara pedestri spiedini citazionistici a base di Zizek e Faulkner, Foucault e Pasolini, Majakovskij e Baudelaire. Forte del fatto che né gli intervistatori né i fan imberbi gli chiederanno mai di dipanare i propri confusi pistolotti, Capovilla disquisisce di tutto – storia e capitalismo, poesia e spiritualità (“io sono un cristiano aconfessionale, dunque sono un laico, kierkegaardiano”).

Gli andava evidentemente stretto l’inglese dei One Dimensional Man, un onesto gruppetto che senza troppi salamelecchi ma manco grande originalità ruminava idee e suoni del noise rock americano (soprattutto Jesus Lizard e Shellac). Ecco dunque questo progetto qui, avviato sette anni fa col preciso intento di iniettare nel flaccido corpaccione del rock un po’ di “contenuto” (sic). Insomma, “divulgare la cultura” ma anche “vigilare sulla democrazia delle istituzioni e della vita del Paese”. Tre gli album pubblicati, e man mano che va esaurendosi l’ispirazione americanoise emerge lui, a salmodiare sempre più pedante su basi musicali sempre più pasticciate.

Uscito nel febbraio del 2012, Il mondo nuovo era tutto dedicato al tema dell’immigrazione. Oltre 78 minuti e 16 canzoni, un’ondata implacabile di ingenuità letterarie e cattivo gusto. Tra tutte, segnaliamo l’incerto deragliare di ‘Skopje’, il polpettone tragicomico di ‘Stati Uniti d’Africa’ (chitarroni molesti e terzomondismo sonoro un tanto al chilo), un rap firmato da quel loffio di Caparezza e gli stenti di ‘Dimmi addio’  (“ho visto un uomo riflesso sulle vetrine dei centri commerciali, mi ha ricordato un ragazzo ribelle dagli occhi azzurri di cui non vado più fiero”).

Che ce ne facciamo di questa robaccia qui? Quale idea di “cultura” cavalca e persegue? Se tutto è politico, come Capovilla giustamente sottolinea, per quale ragione l’arte dovrebbe poggiare su tale didascalismo? I Jesus Lizard avevano “contenuti”? L’elettronica e il punk non sono anch’essi cultura? Non hanno anch’essi, da sé, un portato politico? Verrebbe voglia di leggergli un po’ di Ranciere, a quel noioso di Capovilla, e spiegargli che, se si deve aggrappare a tanti orpelli verbali e a tanti puntelli bibliografici, i sospetti sulle sue intenzioni di comunicatore e sulla funzione politica della sua musica si infittiscono. E viene da pensare che la sua arte sia asfittica e muta, incapace di evocare universi e significati al di là di quelli più ovvi e accomodanti. Che sia un mero dispositivo consolatorio, in grado di sedurre soltanto chi già condivide quanto essa prova a rappresentare o, al contrario, chi dei “contenuti” se ne sbatte. In altre parole, musica perfetta per il Primo Maggio.

Lo Stato Sociale sono cinque ragazzotti bolognesi finto-simpaticissimi e, con uno sfacelo di dischi venduti e un sacco di date in giro per l’Italia, rappresentano la più amara sorpresa del nostro 2012. A dire il vero il loro nome girellava già presso la nostra infausta blogosfera. Un pezzo soprattutto, ‘Sono così indie’, aveva creato una certa apprensione: quattro minuti e cinquanta di impalpabile satira sulla gioventù alternativa d’oggi, una sciocchezza reazionaria indirizzata agli stessi ghignanti individui che finge di sfotticchiare. Una lista di presunti vezzi giovanili alla maniera del fu tormentone ‘Milano Is Burning’ (ricordate?): solo che stavolta abbiamo faccette e mossette da scaraventare sul palco, e vuoi vedere che a furia di condivisioni su Facebook riusciamo a farci pure due soldi, a vendere birrette e biglietti?

Ecco allora l’album Turisti della democrazia, girone dantesco di aneddotica su/per universitari. Sulla scia di Vasco Brondi e Offlaga Disco Pax, ecco l’ennesimo gruppo pop che a scrivere musica orecchiabile non ci prova nemmeno, e che affida il proprio destino a un furbo straparlare. Le basi sono, manco a dirlo, un indie pop tastieristico buono per tutte le stagioni, con basso saltellante e clap tristissimi, ispirato al revival anni ’80 di circa quindici anni fa. Qualche ritornello atonale e una metrica a cazzo di cane – chissenefrega di come suonano, l’importante è dire quante più fregnacce possibile, ché prima o poi ci azzecchi (ecco un esempio: “la lontananza sai è come il vento, porta sempre cose nuove con sé, a volte buone, a volte i governi, ma comunque elementi di discussione”). Trionfa ‘Mi sono rotto il cazzo’, un’altra lista scritta coi piedi quale ritrattino di una nazione (“mi sono rotto il cazzo del più grande partito riformista d’europa, del facciamo quadrato nel grande centro, dei girotondi, del partito dell’amore, del governo ombra, di chi si difende dai processi e non nei processi, dei militari nei giardini pubblici a fare la guardia a chi piscia il cane”).

Per afferrare il senso del successo de Lo Stato Sociale, ancor più significativi del disco sono i concerti. Un gran dispiegamento di balletti e cazzeggi assortiti, espiati attraverso una pioggia di seriosissimi monologhi su Federico Aldrovandi, fascisti e Carlo Giuliani, e infine da citazioni dotte da cultura alta (il cantante si vanta appena possibile dei suoi trascorsi di attore di teatro, come se importasse qualcosa). Il pubblico compra le magliette, applaude compito, presenzia. In altre parole, Claudio Cecchetto di sinistra e tanta voglia di comunità.

Insomma, se per Il Teatro degli Orrori la ricetta si basa sul noise rock all’amatriciana e per Lo Stato Sociale sulla satira per ventenni hipster, l’andazzo è comune. In apparenza differenze abissali, in sostanza il medesimo vizietto all’italiana. Teatro di stato e orrori sociali: un intrico di ovvietà su società e politica, un’idea di musica fuori tempo massimo e fortunatamente fuori dal mondo. Davvero il rock ha bisogno di testi e protagonisti così verbosi? Davvero ne ha bisogno l’Italia, zeppa com’è di validissimi intellettuali senza dimora e gonfia di opinionisti sciatti e approssimativi? In giro per il mondo ai concerti ci si droga, ci si picchia a sangue, si balla, si poga e ci si accoppia. Oppure si ascolta e si acchiappa l’insegnamento morale ed estetico che si preferisce. Da noi si assiste, compiaciuti o indifferenti, alle vanità dell’ennesimo capopopolo.

Caro 2013, qui musicofili del bureau non ti si chiede tanto. Dacci buoni dischi e facci divertire. Soprattutto, per piacere, liberaci da tanta pedanteria.

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