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di Matteo Pelliti

Lapis #11 (sulla vita commentata)

In un immortale film di Luciano Salce, il primo Fantozzi  (1975) di Paolo Villaggio, nell’episodio della cena al ristorante giapponese con la signorina Silvani, alcuni samurai, appositamente appostati e preposti al compito, amputavano di netto le mani dei malcapitati clienti che si fossero azzardati a toccare il cibo con le dita e non con le tradizionali bacchettine di legno (qui la scena). Analogamente, per molto tempo, ho immaginato un identico trattamento da riservare a chi s’impegna nel gesto di mimare nell’aria, con indici e medi delle due mani, ipotetiche virgolette intorno alla parola, o alla frase, appena pronunciata se non, addirittura, alla stessa espressione “tra virgolette” (ridondanza stigmatizzata qui anche da Vivian Lamarque). Un gesto coverbale, mimetico-pittografico, col quale alcuni accompagnano la già discutibile circoscrizione di senso che le virgolette (occorrerebbe, forse, averne un numero finito pro capite da usare nella vita) portano con sé.

Questo commentare plasticamente le proprie espressioni verbali ha trovato, per me, una nuova forma di manifestazione nella testualità spinta del web: commentiamo continuamente l’intenzionalità delle nostre espressioni attraverso un’inflorescenza infinita di “a parte” teatrali. Prima le emoticon,  poi l’imitazione delle macchine (“modalità ironia on“), infine gli hashtag de-hashtagghizzati, cioè usati non più per categorizzare argomenti ma per “commentare”, connotare, le intenzioni di una frase; di fatto didascalie sintetiche e posticce del senso della frase espressa, in forma hashtag/frase del tipo #lamammadeicretinièsempreincinta, oppure #noncelapossofare e via compilando porzioni di discorso abbreviato. Mentre si potrebbe fare ironia anche solo con la punteggiatura.

Cosa può produrre, alla lunga, quest’inesauribile attività “metalinguistica” alla quale affidiamo i nostri testi, in un perpetuo commentare la propria vita testuale attraverso apparati che chiariscano, alludano, specifichino il senso di quello che stiamo dicendo? Producono, per me, un progressivo impoverimento lessicale e sintattico. Se per trasmettere il senso di una frase devo sistematicamente ricorrere a un indice che ne espliciti meglio e più compiutamene la direzione, l’intenzione, sarò sempre meno portato ad andarmi a cercare il lessico e le strutture sintattiche più adatte ad esprimere quel senso. La lingua s’impigrisce, e il senso delle frasi si svuota sempre più, scivolando in un carosello di ammicchi.

Commenti

commenti

2 Comments

  1. giulia solano dicembre 12, 2013 Reply

    Concordo su tutta la linea.
    Mai usare emoticon.
    Mai autocommentarsi. Anche quando si parla.
    Il codice etico-estetico cui aderisco lo vieta categoricamente. Sono reati punibile con la pena del taglio della lingua o dei polpastrelli. A scelta.

    L’integralista

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