Alburgo, città in lotta tra conservazione e nuovo

di Fabien Kunz-Vitali

Questo testo fa parte di un’inchiesta collettiva su L’Europa delle città, prodotta in collaborazione con Le città intelligenti.

La città rintanata nel proprio passato, ovvero:
«perché i poeti sono da preferire ai sovrintendenti all’edilizia».

In uno dei capitoli del Notre-Dame de Paris, notoriamente indigesto per il lettore curioso di come va a finire la storia, ma troppo breve per l’autore (che infatti si scusa della sua schematicità), Hugo traccia un quadro storico dello sviluppo urbanistico di Parigi, dalle origini fino ai giorni della Restaurazione. Racconta una storia di continuo declino, naturalmente. Dove splendeurs e beautés del passato, quello gotico in particolare, tendono a presentarsi ormai solo in modo fugace, negli interstizi fra edifici nuovi che deturpano l’aspetto generale, un tempo sublime, della città. Pur nel profluvio delle sue pagine enciclopediche, non sfugge la logica assai semplice secondo cui Hugo declina la storia dell’architettura di Parigi, del resto analoga a un suo atteggiamento scisso verso la Storia in generale: il passato era iniquo, ma bello – il progresso è giusto, ma brutto.

Ora, quando Hugo stava lassù, in cima alla sua vecchia cattedrale, a scrutare il vasto spazio di una città che sembrava non appartenergli più, che egli vedeva arretrare irrevocabilmente nel futuro, Parigi era ancora di là dall’assumere quell’aspetto e divenire quel luogo che ci è oggi familiare e che, più o meno, ci affascina. Per cui non possiamo non sorridere delle sue profezie, in particolare, di una Parigi votata al progresso e, ipso facto, al regresso a spazio architettonicamente insignificante. Questioni di gusto a parte una realtà urbana recente come la Défense (chissà quali batterie analogiche Hugo avrebbe mobilitato contro un progetto come questo) – conferma che è da rigettare, con spontanea brutalità, l’idea “della conservazione” che Parigi è ancora oggi una Città. Vale a dire una meta costante di persone in cerca non di musei ma di una vita; un luogo che, come un organismo, è capace di trasformarsi, di reinventarsi, di inglobare il proprio passato e magari anche di reprimerlo (Freud ha paragonato le stratificazioni dell’apparato psichico alle stratificazioni urbane di una città come Roma). Ecco, non bisogna scomodare i futuristi per affermare che la conservazione, quando si fa principio, può andare bene per un posto come Lubecca, ma non vale per una Città.

Le idee che Hugo espresse a proposito dell’architettura parigina sono interessanti perché, fra l’altro, rinviano a problemi che oggi non sono privi d’attualità. Fra questi c’è anzitutto quello del patrimonio storico e di come proteggerlo affinché, rispetto alle esigenze e alle visioni del futuro, non diventi un semplice baluardo. Ma la domanda pare ancillare a un’altra: in una realtà che si dichiara democratica, in cui l’organizzazione della vita di una comunità, quindi anche l’edilizia, dovrebbe essere mediata da un consenso popolare, come regolare le questioni che riguardano evoluzione ed estetica urbana? Soprattutto quando queste toccano dei punti nevralgici, i luoghi esposti e pertanto simbolici, di una metropoli? Da quando non è più un re illuminato a portare da solo la responsabilità di dare un volto alla città, chi ha il diritto e il dovere di decidere? Gli specialisti, certo. Ma a parte le questioni tecniche, per le questioni estetiche, gli specialisti chi sono? Le “archistar”?

Amburgo, 2007: Herzog & De Meuron vincono l’appalto per la costruzione della Elbphilharmonie, gigantesco edificio navaloide che conterrà una sala concerti, un albergo, un ristorante, appartamenti privati, parcheggio, piattaforma panoramica. Soprattutto, per la sua posizione di rilievo, che sovrasta il porto e la cosiddetta Hafencity (nuova zona urbana che, conglobandoli, cresce attorno agli storici magazzini della Speicherstadt), l’edificio è chiamato ad assumere funzione di nuovo simbolo della città. O, per meglio dire, simbolo di Amburgo, che vuole essere Città.

Così ovviamente non la vede la gran parte della popolazione locale. Che non vi si riconosce. E qui inizia la nebbia. Chi decide cosa deve simboleggiare una città? Magari non il “popolo”, se è vero che le visioni per l’espansione urbanistica non si basano su un referendum. E non potrebbe essere diversamente se è vero, come in questo caso, che il popolo tende a rifiutare categoricamente progetti che incrementano e alterano l’aspetto “familiare” di una città. Ora occorre distinguere. La difesa del vecchio contro il nuovo può avere motivazioni sacrosante, come quando porta a smascherare un falso progresso; per restare ad Amburgo si parla della protesta contro il sacrificio di un pezzo storico di Altona per la costruzione di un punto vendita Ikea; o come quando la contrarietà viene da un disagio sociale – almeno per chi dipende da Hartz IV, il programma pubblico di assistenza ai poveri – e istintivamente mette in relazione i propri stenti con il fasto del tutto inaccessibile, a lui come ai più, del nuovo “simbolo” della propria città.

Bene. Ma a voler rispettare le ragioni di ogni singolo cittadino, nella progettazione del futuro urbano, non ci sarebbe probabilmente da costruire più niente. Ciò ovviamente non significa che non si debba per lo meno cercare di coinvolgere tutti. In questo senso, l’iniziativa che da quest’anno si sta sperimentando proprio ad Amburgo sotto il nome di Stadtwerkstatt, sorta di officina del dialogo sulla città che coinvolge cittadini, architetti e politici, è senz’altro interessante, degna forse della “città intelligente” che impegna il dibattito urbanistico internazionale. Solo le voci cittadine raccolte in questo contesto parlano chiaro. Sono semplici variazioni sul tema del ubi sunt (ovvero si stava meglio quando si stava peggio): Quanto sono belli i vecchi depositi nel porto! Quanto doveva essere bella la città quando erano solo le prominenti chiese protestanti a disegnarne la silhouette! E infine: quanto tutto questo viene sfigurato dal nuovo… siamo punto e accapo. Il popolo (un po’ come Hugo, e non è un caso) può essere terribilmente conservatore. Non gradisce il nuovo, se non è strettamente in linea con il vecchio. Si indigna dell’estetica degli esempi statuiti da un potere nuovo, e si gongola per l’estetica degli esempi statuiti dal potere storico – di solito, senza nemmeno stare a immaginare il probabile disagio delle generazioni precedenti, a loro volta messe a confronto, assai meno democraticamente, con il “nuovo”. Insomma: quella bella silhouette storica che tanti vorrebbero poter scrutare l’orizzonte senza imbattersi in oggetti estranei è sempre stata così armoniosa e “tipica” o piuttosto lo è diventata col tempo? E, ancora, dobbiamo proprio farci invisibili per non disturbarlo, nella sua grandezza e nel suo sublime, il passato?

Sarebbe bello fare simili domande a Egbert Kossak, ex sovrintendente allo sviluppo edile di Amburgo e oggi portavoce fra i più autorevoli della protesta contro il rinnovo architettonico della città. Non è che non siano spontaneamente comprensibili certe sue posizioni, come quando per esempio indica negli Event Manager, nei VIP mediatici e in altri venditori di frottole, i veri incompetenti responsabili dell’attuale sviluppo urbanistico. O quando definisce ignobili (“brutta porcheria”) costruzioni nuove tipo le Torri danzanti. Ma Kossak si mette a sparare a zero contro tutto. Non solo contro la Elbphilharmonie che per lui comunque è un “mostro completamente informe che spezza ogni ragionevole dimensione della città”, quasi i due architetti svizzeri si fossero scordati di usare il righello. Ma contro qualunque cosa interferisca con la sky-line su citata, cioè quella “silhouette costituita dalle sue cinque grandi chiese e con la casa comunale che rappresenta, da ormai 600 anni, l’identità di Amburgo”. Come dire, Amburgo non deve essere una Città, ma deve essere la città che è sempre stata. Deve stare rintanata nel proprio passato.

Nel torrente davvero eccezionale (e affascinante, per chi osserva il tutto da fuori) dei pregiudizi che sembrano accompagnare la controversia – non solo sulla Elbphilharmonie, ma anche sull’evoluzione urbanistica di Amburgo in generale – gli argomenti del sovrintendente sono i più rappresentativi. Anche i più deludenti. Come se la protezione della sostanza storica, in architettura come altrove, fosse stata il principio che ha reso Amburgo quella che è, o che pretende di essere, cioè la “Porta del mondo”. Insomma, il passato è una bellissima cosa: specie quando viene esaltato ad arte come nei romanzi di Hugo. Quest’ultimo, invece di parlare come un sovrintendente ormai privo di senso poetico, parlava da poeta con tanto senso storico (“Ceci tuera cela”). Hugo, al posto di auspicare come soluzione futura il restauro della vecchia sagoma della città, cioè più o meno il ritorno al tardo Medioevo, si limitava a incoraggiare i suoi lettori a salire sulle torri di Notre-Dame de Paris e a immedesimarsi nella visione “dei corvi del 1482”. Ecco: consigliamo agli amburghesi di salire sulla torre del loro adorato San Michele e di immaginare, anacronisticamente, il panorama che guardavano i gabbiani del 1482.

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