banana maturità

di Luca Riposati

Tema:
Il candidato, prendendo spunto da questa ‘previsione’ di Andy Warhol, analizzi il valore assegnato alla “fama” (effimera o meno) nella società odierna e rifletta sul concetto di “fama” proposto dall’industria televisiva (Reality e Talent show) o diffuso dai social media (Twitter, Facebook, Youtube, Weblog, ecc)

Svolgimento:
(incipit, e direttamente in bella, come ai vecchi tempi, perché qualche cancellatura da una allure molto cool e per lasciare negli astanti la sensazione di “passare il turno con la pipa in bocca”)

«Andy W. era un grandissimo truffatore su scala industriale. La sua figura può essere paragonata a quella dei preti al seguito dei conquistadores. Ammirando le sue opere, lo spettatore viene ricondotto allo stato del selvaggio, a cui vengono mostrati specchietti e perline, per le quali decide di rinunciare a tutto quello che egli è stato. Fuor di metafora, W. Ha preso i prodotti di scarto della western civilization, e ci ha convinto che fossero migliori di quello che abbiamo avuto facendo la lunga e tortuosa strada che ci ha condotti fin qui. I suoi poster richiedono di rinnegare Michelangelo o Picasso, per essere apprezzati fino in fondo.

(corpus a voli pindarici, per disorientare il lettore, in mancanza di altri artifici – indirettamente esaudisce pure la richiesta di parlare ancora di reality show manifestata con malcelato zelo nella traccia)
Il meccanismo di funzionamento di Andy Warhol è antico, e per questo collaudato. Riproposto ciclicamente, per sua natura, appare sempre nuovo, e si basa sul vecchio adagio “chi contesta nel contesto, fa carriera presto presto”. Se c’è una cosa che fa colpo, è la convinta affermazione dell’ovvio, quando uno scenario culturale raggiunge la massa critica della costruzione, dell’utopia e dell’ipocrisia – proprio come alla fine degli anni 60.

La stantia e mortifera riproposizione di cose terze nelle opere di Warhol è gradevole come l’ipodermia: nessuno vi si ribella perché in fondo è una bella sensazione. Ma pur sempre di morte si tratta. Anche il più vitale di noi, non si sottrarrebbe spontaneamente al tiepido abbraccio della quiescenza estetica – compreso chi scrive.
Vampiresco e affetto da mecenatismo, W. non ha fatto altro che finanziare un variopinto caravanserraglio di freak: un tacito accordo imperniato sulla simbiosi e il parassitismo, gli garantì poi una adeguata copertura mediatica. “Fare qualcosa” e garantirsi “buona stampa” è l’equivalente pop di sfruttare il proletariato in patria (in questo caso star come Marylin o Mao), prendere il prodotto finito (di infima qualità) e chiudere il cerchio vendendolo alle colonie, “nuovi mercati”, vergini, dunque, ricettivi, come il pubblico occidentale dopo la sbornia rococò e infantile dei 60s. Tutto questo si può fare, con l’aiuto della violenza e del monopolio dell’uso della forza, oppure con l’establishment culturale e gli stakeholder che ti reggono il sacco. Connivenza, è la parola chiave.

Sorvolando sull’immondizia che W. ci ha spacciato come arte e di cui gli saremo sempre grati, in modo inversamente proporzionale alla povertà del nostro spirito, è importante soffermarsi sul come W. abbia fatto estinguere l’arte in quanto tale. Per millenni l’arte ha coinciso con l’intrattenimento: scolpivano statue e facevano quadri perché il format della serie televisiva (a cui l’uomo ha sempre teso, fin dai tempi dei disegni rupestri) non era ancora tecnicamente realizzabile. Chi scrive è persuaso che se Omero avesse potuto dipanare la sua trama in stagioni da 10-15 episodi, avrebbe prontamente abbandonato la forma orale, così come Michelangelo avrebbe girato un colossal a posto di “dipingere tutte le scene” sulla Cappella Sistina. L’arte era intrattenimento, e gran parte della valutazione era basata sull’efficacia emotiva della rappresentazione (“se qualcosa piace agli aborigeni come ad Adam Smith, allora è ok”) e sull’abilità tecnica nel realizzarla (il motivo per cui Hitchcock è migliore del tuo regista preferito a prescindere: impressiona per archetipi e sa usare le inquadrature). Da W. in poi, si è sdoganato il concetto che qualcosa fosse “arte”, svincolata dall’opportunità della fruizione, una meta-arte, con un suo nuovo, lucrosissimo, mercato à part.

Tutto questo per poter affermare che quello che ha detto W. era irrilevante, compresa la profezia dei 15 minuti di celebrità. Ancora oggi, la celebrità rimane una cosa ben precisa, e diversa dalla ovvia visibilità offerta dai nuovi media. La grettezza perbenista e pelosa di chi ha scritto la traccia non ci impedisce al dunque di leggere tra le righe: si richiede più che altro, una severa critica della gestione dell’immagine personale, del rapporto con sé e coi pari, al giorno d’oggi. Bene, non c’è nulla da criticare, se non l’asfissiante autoreferenzialità dei social network. Ad esempio: alcuni sostengono che le rivoluzioni arabe siano state fatte con tweet. Altri, come me, preferiscono sottolineare come i ribelli libici si siano presto disinteressati ai “like”, e di come stiano ossessivamente chiedendo alla NATO attacchi al suolo con elicotteri. Tali rivoluzioni sono il frutto del placet degli Americani in seguito alle voglie di golpe maturate in seno alle élites militari e laiche di Paesi come Egitto e Libia (off topic). Mi pare di intuire che “prendendo le mosse dalla citazione di W.” si fosse pure richiesta una certa (auto)critica rispetto alla virtualità dei social network e al morboso e pervasivo uso che ne fanno le nuove generazioni di tutte età. Ma sui social network ci sono le persone che parlano. E che uno sia attratto, assuefatto e “dipendente” dal contatto con altri esseri umani, non mi avventuro a dire se sia giusto o no, mi limito a rilevare che è normale e ovvio. Sul fatto della virtualità, non farei crociate: noi esseri umani campiamo di astrazioni, da sempre. Anche parlare è una cosa che tiene lontani dalla “vita”. Perché al posto di portarvi a toccare una brocca di terracotta nella cantina di mia nonna, ve la racconto – a discapito dell’esperienza.

Conclusione
(dopo 15 minuti e 21 secondi, 110 pulsazioni, non male, per un vecchio)

Dunque: nessuno è “famoso per 15 minuti” né ora, né mai. L’affermazione su cui si vuol basare tutto è stata rilasciata, con sardonica irresponsabilità, da uno straccivendolo d’alto bordo – che fosse tale, è la mia tesi.
Uno è famoso quando trenta milioni di persone possiedono qualcosa di suo, a casa, e lui ne gode i frutti mentre rigurgita champagne nella siepe della sua villa, e le squillo che chiama “indossatrici” lo invocano con voce suadente, non trovandolo più nella Jacuzzi…

Commenti

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3 Comments

  1. alice.in.chains giugno 23, 2011 Reply

    ehi hai scritto “come HAI vecchi tempi”… nella prima riga…. ehi ma l’hai passata davvero la maturità?

  2. Valentina giugno 23, 2011 Reply

    Anche tu hai ragione, ma -per la verità- l’autore l’ha segnalato con grande prontezza. La colpa è dell’editor che
    1) stamattina dormiva;
    2) è un fervente antiwarholiano che in prima lettura se l’è fatta prendere troppo bene dal contenuto del pezzo perdendo così il senso del proprio compito.

  3. Piwi novembre 28, 2011 Reply

    Ottima connubio foto/titolo! Anche se non condivido la maggior parte del contenuto.

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