Houla

di Elisabetta Terigi

Venerdì 25 maggio: Hula, Siria – È in questo villaggio nella provincia di Homs che va in scena l’ennesimo lutto collettivo in una nazione che vive disordini e battaglie da quattordici mesi e conta ormai oltre 13mila vittime (per lo più civili). Ad Hula tra venerdì e sabato sono morte più di cento persone. Tra queste trentadue erano bambini con meno di dieci anni: almeno trecento i feriti.

 Chi non vuole vedere la verità – Una realtà che le organizzazioni internazionali stentano a riconoscere e per la quale faticano a trovare una soluzione. Non un pronto intervento militare, ma un piano in sei punti: è quanto si è messo sul tavolo grazie all’intervento dell’Onu nel marzo di quest’anno. Con la missione dell’inviato delle Nazioni Unite e della Lega Araba, Kofi Annan, era stata trovata una soluzione accettata anche da Cina e Russia . Il motivo del sì dei due paesi è molto facile da comprendere. Il piano non prevedeva infatti le dimissioni del leader siriano Bashar Al Assad.

L’esperimento è fallito – In questi giorni di maggio però  è arrivata la conferma della sua inefficacia. A dirlo apertamente sono stati i disertori dell’esercito siriano libero che annunciano rappresaglie contro i militari fedeli al presidente. «Non è più possibile – dicono – rispettare il piano di pace di Kofi Annan, utilizzato dal regime per perpetrare massacri contro la popolazione disarmata». In queste ore le Nazioni Unite hanno condannato il massacro di Hula attraverso una dichiarazione condivisa, ma in Siria si continua a morire. E una vera soluzione per il paese deve passare obbligatoriamente attraverso il voto di Russia e Cina che non sembrano essere sulla stessa linea dei paesi occidentali.

Il silenzio delle vittime – Stavolta è difficile nascondersi dietro il dito del perbenismo, del non volere essere ritenuti responsabili di un conflitto non nostro, non occidentale. Corpi insanguinati avvolti in tappeti e coperte compongono le immagini crude di video che fanno il giro del mondo tramite youtube. Il regime di Damasco nega ogni responsabilità e attribuisce la strage a gruppi terroristici. Notizie confuse provengono dal paese mediorientale, ma nessuno crede all’estraneità del governo di Assad. È il capo degli osservatori Onu, il generale Robert Mood, a spiegare la dinamica dell’accaduto: sarebbero stati impiegati cannoni di carri armati dell’esercito siriano. Intanto sul sito dell’agenzia stampa Reuters si legge che, nemmeno dopo la strage di Hula, i crimini si sono fermati:  almeno 41 persone sono morte di cui otto bambini in un assalto alla città di Hama.

Cosa ha condotto alla strage – Durante gli anni della dittatura, gli abitanti di Hula sono sempre rimasti in silenzio, perché circondati da tre villaggi alawiti e uno sciita. Secondo quanto riporta Spiegel Online  la gente di Hula sapeva bene che i loro vicini erano, per motivi religiosi, fedeli al regime. Assad e il suo entourage sono alawiti, mentre i più solidali al governo di Damasco sono Iran e gli Hezbollah libanesi, entrambi di tradizione sciita. Tra il 2011 e il 2012 il vento è cambiato. Da quando, nel passato inverno, un’unità dell’esercito siriano libero si è stanziato nel villaggio. Anche per questo forse gli abitanti hanno trovato il coraggio di ribellarsi per una volta al regime: è successo un venerdì di maggio; rabbia e sete di libertà non hanno evitato errori tattici che si sono rivelati fatali ed è andata in scena la strage.

Evitare l’anestetizzazione – Hula è un massacro d’innocenti che ormai si inscrive in una già lunga, ma paradossalmente recente tradizione. Segue quello di My lai, in Vietnam, quando nel marzo del 1968 morirono 347 innocenti (tra vecchi, donne e bambini), quello di Sabra e Shatila, in Libano, dove dei profughi palestinesi in due campi alla periferia di Beirut furono vittime delle barbarie degli eserciti nemici (ancora non si è riusciti a decifrare il numero delle vittime). Infine succede all’orrore di Srebrenica in Bosnia e Erzegovina, quando nel 1995  migliaia di musulmani bosniaci persero la vita a causa delle barbarie delle truppe serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladić nella zona protetta di Srebrenica, che allora si trovava sotto tutela delle Nazioni Unite.

Già le Nazioni Unite, quell’organizzazione nata nel 1945 –  All’indomani della seconda guerra mondiale l’istituzione aveva il più nobile dei fini: quello della cooperazione internazionale in materia di sviluppo economico, progresso socioculturale, diritti umani e sicurezza internazionale. In Siria si è arrivati a 14 mesi di guerra silenziosa. Ora si pensa a una nuova soluzione sul modello dello Yemen: una transizione controllata. L’inquilino della Casa Bianca lo ha anticipato al New York Times. Il progetto prevede l’esilio per Assad, ma il mantenimento di parte del suo governo.

Amara conclusione – Sembra che i morti siriani non contino abbastanza sul piano internazionale o forse non sono funzionali agli equilibri geopolitici voluti dalle potenze del mondo. Suonerà banale e ripetitivo, come chi vede l’agguato dietro ogni apparente casuale sfortuna, ma in Siria niente fa pensare ad altra spiegazione. E intanto continua a scorrere sangue tra Damasco e Homs.

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