IL MITO DELLE NARRAZIONI

mitologia urbana - 1

di Tommaso Matano

Mitologie urbane è un osservatorio sugli schemi narrativi che organizzano la nostra esistenza, e in particolare sui “racconti sociali” che attraversano lo spazio della città. In collaborazione con Le città intelligenti.

Il mito è un linguaggio
Roland Barthes, Miti d’oggi

Nel luogo e nel tempo di Twitter, di Instagram e del microblogging, un discorso sulle narrazioni, oltre a soffrire del più classico vizio di metodo (è una narrazione sulle narrazioni), appare soprattutto obsoleto.
Se è vero che ormai le notizie viaggiano tramite i leaks, cioè sgorgano dalla fonte direttamente sulle tavole dei lettori, senza il processo di imbottigliamento ed elaborazione dei mezzi d’informazione, allora discutere di come costruiamo il modo in cui raccontiamo il mondo può sembrare roba sorpassata. Il mondo ce lo raccontiamo così com’è, in ottemperanza a una visione realista delle cose.
La tecnologia ci concilia con i dati: internet valica la barriera della censura, scarnifica l’ideologico, ci mette in contatto orizzontale con il resto del mondo, ci restituisce l’appercezione immediata degli eventi.
Perché parlare di mitopoiesi nel tempo in cui il linguaggio pare avere presa integrale e sicura sulla realtà?

Come avrete capito dalla banalità di questo espediente retorico, la nostra autoconfutazione è fittizia.

Non solo, nel vivere quotidiano, abitiamo il mito. È il mito stesso che ci abita.

Le narrazioni solcano trasversalmente il mondo e la società che frequentiamo.
Il modo in cui elaboriamo i fenomeni collettivi che ci riguardano in quanto individui e in quanto cittadini è spesso un modo narrativo: i concetti sono in realtà storie. E il bello delle storie è che non vengono chiamate a dar conto della loro verità o falsità. La coerenza della narrazione ha una dignità tutta particolare, poiché non risponde alla logica ordinaria, ma organizza il senso a un livello che fa appello all’intelligenza pratica, al saper fare.
Di una storia possiamo servirci come se fosse uno strumento
. Essa funziona quando fila, non quando dice la verità.

Ma cosa vuol dire questo, nella vita di tutti i giorni?

Vuol dire che mentre la tecnologia ci fornisce modalità sempre più crude di imporci alla natura, predicando la ricchezza di un linguaggio-oggetto, nell’idea che aver presa sulla realtà sia dire la realtà e non parlare della realtà, i giornali, il bar, i social network e tutti gli altri luoghi (in una parola le città) che abbiamo per rielaborare quel linguaggio-oggetto finiscono per rendere quell’elaborazione una narrazione.

Vuol dire, in altre parole, che a volte, quando parliamo del mondo, stiamo raccontando storie sul mondo.

Nel rischio del narrativo vorremmo addentrarci, per tentare di osservare quel meccanismo con cui il nostro linguaggio – verbale, fotografico, multimediale – più che parlare la o della realtà, la rifà.
Come racconta Nelson Goodman, “a chi si rammaricava che il suo ritratto di Gertrude Stein non le fosse somigliante, si dice che Picasso abbia risposto: Non importa, lo sarà.

Ci muoviamo in una realtà che, già per il semplice fatto di essere quella in cui siamo, è aumentata, incrementata, dal valore simbolico del nostro parlarne.
Il compito che ci proporremo, allora, nel tracciare una specie di affresco dei miti della società di oggi, sarà problematizzare questi fenomeni in cui ci troviamo continuamente immersi. Non saremo forse in grado di comprendere le mitologie urbane, ma proveremo a identificarle in quanto mitologie.

La convinzione, implicita, che orienta i nostri intenti, è che nell’intelligenza della città, cioè del luogo in cui abitiamo, debba rientrare anche questo spazio ri-creativo. Uno spazio in cui la significazione che il mondo assume possa farsi oggetto di riflessione.
Non si tratterà di dare nomi alle cose, ma di denunciare le cose che ancora non hanno un nome.
È una maniera per mettere ordine?

Senz’altro è un mezzo per sbirciare nel modo in cui viviamo nelle città, in cui viviamo le città, in cui concepiamo le città, perfino nel modo in cui stiamo nella dimensione parallela della “Rete” come se fosse una città.
E questo come se è già una narrazione.

Non sappiamo quanto tutto questo sia utile.

Speriamo si riveli almeno urbano.

Commenti

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1 Comment

  1. Massimo Bocchia dicembre 8, 2012 Reply

    Emettere suoni (o scrivere parole) è essenzialmente un atto di richiamo dell’attenzione verso di sé. Il linguaggio tende quasi sempre a modificare questa funzione primitiva, mascherandola nell’illusione di voler portare sé verso altro o altri. Quest’equivoco ha un’origine precisa: chi parla (o scrive) è il primo ascoltatore di se stesso. Da qui l’istintiva ed errata sensazione che il movimento naturale sia quello di chi parla verso chi ascolta, in un processo più o meno complesso di identificazione di noi stessi nell’altro. Ma il vero e unico movimento è quello di noi verso noi stessi, dell’io verso l’io e l’altro diventa semplicemente la strumentale identificazione di noi stessi fuori dal nostro corpo, l’elaborazione tridimensionale dell’immagine dell’io che siamo incapaci di vedere.

    Non interessa portare noi verso gli altri, ma gli altri verso di noi. L’altro è precisamente solo uno dei mezzi utilizzabili allo scopo della insopprimibile comunicazione “inter-personale”. Non ci importa ascoltare gli altri, ma usare gli altri per ascoltare meglio noi stessi. L’unico scambio reale è quello tra noi stessi, dove l’altro o gli altri fungono solo da pretesto per rendere meno difficile una comunicazione irrimediabilmente auto- riflessiva.

    Se uno urla, non vi è possibilità di equivoci: cerca di richiamare l’attenzione verso di sé. Ma se lo stesso usa toni posati, elabora un ragionamento, predispone delle pause, utilizza le parole o alcune frasi dell’interlocutore, annuisce o dissente con il capo, tenta di dare l’impressione di interagire in vario modo con l’altro, sembrerebbe che qualcosa di diverso possa accadere.

    Niente di più errato. I veri protagonisti dell’unico dialogo reale sono sempre i due separati sé che continuano a scambiarsi informazioni tra loro, mentre tra i due distinti corpi che parlano non accade nulla di definibile come comunicazione. Il significato delle parole e la ricerca ossessiva di volerne accertare il senso comune è quindi impossibile e inutile. Impossibile perché non può mai realizzarsi la completa identificazione dell’altro nel proprio mondo fisico e mentale, inutile perché non serve a nessuno scopo: non è l’altro che può o deve capire e dialogare con noi, ma noi che ci serviamo del pretesto di un altro (e di parole) per proseguire l’ininterrotto dialogo con noi stessi.

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