il bureau - dizionario controfattuale - tag

“Tag” è l’ottava voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledì, tutti i mercoledì, in collaborazione con Le città intelligenti.

“Il dualismo di schema e contenuto, di sistema organizzante e qualcosa che aspetta di essere organizzato, non può essere reso intelligibile e giustificabile. È esso stesso un dogma dell’empirismo, il terzo dogma.”
Donald Davidson

Tag, questa parola ha la forma di un’etichetta. Qui precipita, nell’uso, l’illusione ottica che segno e significato si tengano per qualche segreta ragione, in una onomatopea che sigla, traccia, definisce, contrassegna. Taggare – verbo che entra nel Dizionario Italiano sia per ”marcare gli elementi di un file” sia nel gergo dei writers per “firmare un graffito con la propria sigla”, ha riportato tutti gli scriventi al compito di categorizzare pensieri, persone, concetti, oggetti fisici, oggetti sociali, scritture, luoghi. Il tag ha il benefico effetto di imporre una generalizzazione, simil-aristotelica, sugli elementi del reale, là dove siamo ormai massimamente analitici e incapaci di astrazioni generalizzanti. Ma facciamo un passo indietro. Nell’inglese del Quattrocento era un piccolo pezzo di stoffa, ornamento di vestiario. Nei social network è il modo di attribuire nomi a foto o testi e, superata la stagione “romantica” dei blog, del web “semantico”, il tag rivive in modo eminente adesso negli hashtag, le etichette-cancelletto che interpungono, taggandola, l’intera “conversazione” globale, il flusso della rete, la rete stessa. L’appropriatezza, la cogenza nell’attribuzione del corretto hashtag al contenuto informativo pubblicato (testo, foto, persona che sia) è una forma di nuova dittatura del pensiero, la “dittatura dell’etichettatura”, o l’etichetta dell’etichette. Ogni uso “improprio” dei tag viene, infatti, sconsigliato, censurato. Il predominio della “rilevanza” governa ogni scelta di marcatura. Così, la “sensatezza” degli hashtag depaupera ogni scarto creativo, ogni uso potenziale, o controintuitivo. L’uso “politico” del googlebombing, ad esempio, potrebbe essere riproposto utilmente a livello di etichettature odierne. Nell’insondabile spazio tra saperi inconsapevoli e comprensione del reale, quale “schema concettuale” stiamo applicando nel momento in cui scegliamo di categorizzare con un “tag” (o un hashtag) un contenuto?

(Nel paratesto di questo lemma, qui sotto, troverete alcuni tag, scelti dal curatore della pubblicazione online del mio testo. Se sarò stato convincente, troverete tra quelli anche un tag incongruo, superfluo, deviante, semanticamente irrilevante. Se, al contrario, non lo troverete, la dittatura funziona).

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