Un allegro ragazzo morto risorge dalle ceneri della musica italiana

Chiara Caporicci, autrice di "Musica indipendente italiana" (Zona, 2010)

di Valentina Parasecolo

Se ascolti la musica italiana, rifletti sulla musica italiana.
Se non rifletti sulla musica italiana, forse la stai solo sentendo.
Ma può bastare per aver voglia di capire che le sta succedendo, ché si fiuta un mutamento diffuso, ché si nota come si stanno sgretolando le certezze. Basta mantenersi sul nazionalpopolare: il vero Cantagiro è finito da un pezzo, Mtv non ha più il monopolio sull’educazione musicale dei giovani, Sanremo è il palco dei doppi allori per i vincitori dei talent show. Poi
 internet. Che ribalta l’unidirezionalità di radio e tv e veicola una miriade di nicchie musicali. I social network, la rinascita delle radio grazie al web, l’autoproduzione che finisce diretta nei lettori mp3.

E così, mentre “indie” diventa una definizione a cui chiunque prova a dare un’interpretazione, tornano a fiorire le etichette indipendenti, combattenti costrette a una guerra tra poveri o vittoriose madri di artisti consegnati al successo. Tantissima carne al fuoco. Troppa.

Così, in un vicolo sul retro della Fnac, davanti a un telefono rotto, con il rumore di sottofondo di un garage scricchiolante, ho incontrato Chiara Caporicci, giovane e brillante autrice di “Musica indipendente in Italia. Storia, etichette ed evoluzione”, che ha cercato di portare un po’ di chiarezza su questo argomento.

Che cosa è la musica indipendente in Italia?
Per la definizione classica è tutto ciò che non appartiene alla produzione delle quattro multinazionali della musica (Warner, Universal, Emi, Sony). In realtà negli anni ha assunto nuovi significati. Per molti operatori la vera indipendenza ha a che fare con l’autoproduzione e non si appoggia ai circuiti della grande distribuzione. Io credo che in realtà riguardi la proprietà intellettuale sul proprio lavoro, la capacità di conservare autonomia di scelta su cosa fare e su come farlo.

E’ vero che ogni artista indipendente in realtà mira al grande pubblico?
Mi vengono in mente molto artisti indipendenti che hanno contratti con delle major (Afterhours, Nicolò Fabi,…). In realtà alcuni sono tornati indietro perché non accettavano compromessi sulla propria arte. L’indipendenza riguarda il proprio potere “contrattuale”: c’è chi, lavorando per una major, resta comunque nelle condizioni di portare avanti il proprio prodotto riuscendo a infilarlo nel circuito mainstream. Un giorno chiesi a Pino Marino del collettivo Angelo Mai (una realtà con un’etica fortemente indipendente, ben lontana dalla mentalità della multinazionale): “Se ti chiedono di andare a Sanremo,ci vai?” Mi rispose: “Va bene anche Sanremo se in quel contesto viene accettato un pacchetto di comportamento, modalità, scelta, possibilità esecutiva e rappresentazione. Non va più bene se mi dicono Va benissimo perché sei simpatico, va bene perché il ritornello si canta, però questo no, questo no, attento a dire. Questo non va più bene. Quando vengono accettate le condizioni in realtà va bene tutto, perché devi avere la maturità professionale e personale di essere in grado di stare anche in contesti diversi da quello che sei tu. L’importante è capire quanto di quel pacchetto è accettato. Se è integralmente accettato, va bene Sanremo”. Il problema è che spesso non avviene così e accedere al veicolo dei media maggiori è difficile.

Cosa succede? Da dove vengono pescati gli artisti che ottengono un contratto con le major?
Da quando le quattro hanno iniziato a operare in Italia, per trovare le nuove leve hanno usato il vivaio della musica indipendente alimentato da grandi etichette come la Ricordi. Questo perché le indipendenti compiono un’attività di scouting costante, cosa che ultimamente è fatta anche dalla tv attraverso i talent show. Ma c’è almeno una differenza: diversamente dagli “ex-indipendenti”, ciò che viene raccolto dai talent show dura generalmente una stagione, un disco. Contemporaneamente, gli artisti presi dagli indipendenti diventano gli ultimi del cartellone.

Anche perché sono meno noti al grande pubblico rispetto a chi ha avuto un percorso televisivo che tra l’altro è quasi sempre un interprete. E’ venuto meno il gancio tra interpreti e autori/cantautori?
Credo che sia venuto meno il rapporto che spesso c’era anche prima del contratto. Tra Battisti e Mogol la collaborazione esisteva già prima, il loro progetto si stava comunque sviluppando. Ora si tende a prendere “pezzi” e a metterli insieme senza una conoscenza reciproca.

Anche grazie a internet e la facilità dell’autoproduzione la musica indipendente sta vivendo una nuova primavera. Nella vastità di album e ep non si rischia di perdere la qualità che dovrebbe essere tipica del settore?
La qualità c’è. Il punto è che il sistema di internet permette, fortunatamente, una scelta senza filtro, “dal basso”, da parte dell’ascoltatore. Il pubblico, anche quando si muove tra gruppi di nicchia e pur conservando un animo alternativo, ha tendenze indulgenti verso le mode e sceglie quello che è più facile all’ascolto. Mi viene in mente il caso di una band indipendente, il Teatro degli orrori. Hanno ottenuto un successo di pubblico paragonabile a quello che potrebbe avere un artista di una major. Si tratta di un gruppo ottimo, che io stessa seguo con passione. Eppure accanto a loro ci sono tanti altri anche più interessanti, che fanno molta ricerca ma rimangono nell’ombra.

Cosa ci si deve aspettare dagli indipendenti?
Non si può dividere tra “major/male” e “indipendente/bene”. L’errore è analizzare i due ambiti separatamente, per compartimenti. Non bisogna aspettarsi che ogni anno emergano un tot di gruppi dal settore indie e aspettarsi la qualità in quanto indie. Come del resto non bisogna considerare negativamente ciò che viene prodotto dalle major perché, come ho detto, anche lì ci sono musicisti come Capossela, la Donà, i Verdena che mantengono salda la propria autonomia artistica. Quello che dunque va considerato sono le correnti: bisogna capire se nei vari generi vengono sviluppate idee nuove. E in questo senso il settore indipendente è decisamente più fertile.

Quali sono i limiti delle etichette indipendenti?
L’etichetta deve crescere l’artista. Qualche volta capita che alcune mettano solo il marchio sul cd e si confinino a agenzie di promozione. Il limite principale resta comunque quello della distribuzione. Distributori indipendenti come Audioglobe e Venus sono abbastanza pervasivi, ma arrivare alle grandi catene dei negozi non è sempre facile. Anche per quanto riguarda la promozione ci sono soggetti che lavorano molto bene. Eppure i problemi ci sono e riguardano la sopravvivenza. Per resistere servono introiti alti e così si tende a lavorare su tanti comunicati, anche dieci al giorno, livellando la promozione dei singoli artisti.

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3 Comments

  1. Alberto giugno 30, 2011 Reply

    Sottoscrivo Pino Marino, il problema vero è accettare di snaturarsi pur di arrivare. Però mi chiedo anche: c’è per caso in giro qualcuno che fa finta di essere indipendente, che non aspetta altro che svendersi, che sul palco ti fa l’occhiolino e poi non sta aspettando altro che la grande chiamata? E poi, ‘indie’, non è anche una questione di contenuti, di testi? I Clash hanno avuto come etichetta la Sony e scrivevano come era alienante l’Inghilterra dei loro tempi, che sarebbero oggi? Diciamo che erano punk, e così ci sentiamo sollevati.

  2. Chiara settembre 15, 2011 Reply

    Ciao Alberto, leggo solo ora quello che hai scritto, perfortuna ogni tanto torniamo a rileggere le parole dette…
    Di finti indipendenti siamo pieni, in questa continua guerra tra chi conserva davvero il sacro graal dell’indipendenza. Una guerra che secondo me banalmente, fa più male che bene ma che tanti operatori continuano ad alimentare quotidianamente.
    Indie è diventato un termine riferito a contenuti musicali (principalmente anglofoni), è vero, ma il significato originario (fin dal DIY) è puramente legato ad aspetti mercantili e strutturali della discografia, in opposizione al circuito multinazionale.
    “che sarebbero i Clash oggi?”, non saprei proprio risponderti!! Ma credo che molti gruppi non sarebbero stati tali se slegati dal loro periodo storico di espressione..
    Comunque restano sicuramente strapunc. :)
    Un abbraccio! E viva il bureau!
    C.

  3. caramelleamare ottobre 14, 2011 Reply

    A proposito di musica indipendente: conoscete Babalot?
    A me garba un sacco.
    Ha scritto tre album “fatti in casa”
    Non è presuntuoso, e non ha l’aria di chi pensa di creare chissà quale capolavoro o di avere un mondo interiore che dio solo sa.
    Piuttosto sono pezzi sentiti, divertenti, intimisti, ironici e mai banali.
    E soprattutto, visto che è musica, hanno melodie efficaci che non si smontano dopo pochi ascolti.
    Ve lo consiglio!

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