di Alberto Gioffreda
Una pellicola che arriva in sala molti mesi dopo la presentazione ad un grande festival rischia di attirare un’attenzione minore, un effetto di un eccessivo ‘troppo parlato’ che sfocia in un ‘già visto’. E invece, per merito di un eccentrico modo di recitare che Paolo Sorrentino e Sean Penn affidano al protagonista di ‘This Must Be the Place’, il film diventa un lento road movie-romanzo di formazione, oltre che un ritratto al limite della parodia e della smitizzazione delle rockstar.
La formazione è quella di Cheyenne, interpretato da Penn. Una ex rockstar che passa il suo tempo nella villa di Dublino tra la noia-depressione nell’attesa che una pizza surgelata sia pronta per cena e la volontà di restare ancorato al tempo in cui viveva sul palco e per la musica, testimoniata dal look gotico fatto di matita, rossetto e cerone (ispirato a Robert Smith dei Cure) che l’ormai cinquantenne si ostina a portare anche per andare semplicemente al supermercato. Un uomo mai cresciuto insomma, un eterno bambino che non ha intenzione di chiudere con il passato.
Il ritmo del film è calibrato su e da Cheyenne, su quel suo modo di camminare così lentamente, come se galleggiasse in un mondo con il quale non ha alcuna sintonia e nel quale non ha più nessuno scopo da trovare. Con quella sua voce in falsetto, flemmatica e cantilenante, una risata che potrebbe portare all’irritazione se per un attimo si dimenticasse che in realtà rappresenta lo stupore che questa rockstar in pensione ha ancora, alternata da una leggerezza, un disincanto e un’ironia informale che solo un bambino può concedersi.
Ad interrompere l’indolente e inesorabile andamento della vita di Cheyenne è la morte del padre ebreo con cui il cantante ha interrotto i rapporti trent’anni prima e che vive a New York. Comincia qui la seconda parte del film, quando Cheyenne, che non ha mai conosciuto realmente suo padre, scopre che l’obiettivo nella vita di quest’ultimo è stato quello di ritrovare il suo aguzzino nazista ad Auschwitz. E Cheyenne, privo di qualsiasi dote da investigatore, si mette alla ricerca di questo tedesco probabilmente già morto, per compiere una vendetta, sublime nel modo di compiersi, nel nome del padre e che lo riconcilia con tutto e con tutti. Ed è in questa seconda parte del film che salgono in cattedra il virtuosismo di Sorrentino, la fotografia di Luca Bigazzi e le musiche di David Byrne. Un’estetica che già nel ‘Il Divo’ e in ‘Le conseguenze dell’amore’ si era manifestata, dove le immagini di New York, del deserto del New Mexico, dei motel, degli orizzonti che non finiscono mai, di facce e storie degli Stati Uniti hanno una forza che comunica indipendentemente dal film e che fanno da cornice ad un uomo contemporaneo senza nessuna volontà di invecchiare e diventare maturo, nascosto dietro trucchi esteriori che solo alla fine verranno meno.
Tutto quello che, anche se non esplicitamente, vorremmo essere e avere dalla vita: il successo della rockstar riconosciuto da tutti, eternamente giovani come Dorian Gray e fuori dagli schemi. Ma prima o poi il ritratto si squarcia ma questa volta si invecchia senza necessariamente morire.
Commenti
2 Comments
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Proprio bello quest’articolo! Come sempre, Alberto Gioffreda mi coinvolge nella lettura con il suo stile scorrevole e comprensibile. E’ un film che non perderò.
P.S. un complimento diffuso a tutti per questo blog che aiuta a non adattarsi agli stereotipi-
Author
grazie, lo scopo del bureau e’ proprio quello che hai evidenziato.
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