di Valentina Parasecolo

 

«Per andare in miniera bisogna scendere. Sottoterra.All’imbocco del pozzo si lasciano il sole e le nuvole, i boschi e le pernici. Si lasciano le mogli e i figli. Solo Dio, forse, ci si porta appresso nella parte più intima di noi, se anch’Egli non ci abbandona laggiù fuggendo la materia più profonda». Così scrive Manlio Massole, ex minatore e poeta, portando alla luce ricordi di quando scavava la roccia sarda. Da allora, sono passati quasi quaranta anni e l’Italia delle miniere è cambiata molto.

 

Oggi se ne contano circa una settantina. Il numero esatto si è perso nel passaggio delle competenze sulla materia da Stato a Regioni mentre tanti fattori cominciavano già a rosicchiare la forza dell’industria estrattiva. Tra questi, una mutata sensibilità rispetto alle questioni ambientali che confliggono con un’attività spesso invasiva per il paesaggio. Poi ci sono i costi di estrazione, spesso troppo alti in un mercato globalizzato, e la crisi che ha un impatto sulla richiesta di materie prime e di opere pubbliche. “Crisi” in Italia significa non solo limitazione di un potenziale, ma degrado e mafie. Come nel caso delle miniere di Rosso Malpelo che in Sicilia tornano a diventare cave incustodite e abbandonate  e vengono usate come “buchi neri” per inghiottire rifiuti illegalmente.

 

Quale futuro per le miniere italiane? Da una parte alcuni minerali continuano a essere estratti con successo (come il talco, che è il maggior prodotto esportato dall’Italia, e il salgemma, estratto in Toscana dalla multinazionale belga Solvay), mentre fa scalpore la notizia sulla presenza di giacimenti di titanio e antimonio, utili per le nuove tecnologie, in Toscana e Liguria.

 

Dall’altra si pensa alla riconversione dei siti. Le parole chiave sono: innovazione, ambiente, turismo. «Ad esempio in Valle D’Aosta – spiega il professor Marco Sertorio, presidente di Assomineraria – molte miniere sono state trasformate in percorsi dal valore storico e ambientale.» Un destino comune a molte aree anche in Europa, prima fra tutte quella della Ruhr, cambiamento cominciato nel 1990.

 

Eppure le miniere italiane, simbolo di un’economia che ha un bisogno epocale di trasformarsi, sono spesso ostaggio di rivendicazioni e mancanza di lucidità. Come nel caso della Carbosulcis, dove innovazione e riconversione stentano a decollare tra resistenze, attese e ricerca di un’identità vincente. Se parole come “innovazione, ambiente, turismo” fanno parte del nostro DNA di Paese, perché tra nuovi giacimenti e antiche narrazioni, non si comincia a ripensare il futuro partendo proprio da sottoterra?

 

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