Aeroporto

di Luca Riposati

E’ possibile scattare una rapida polaroid dell’Europa (e del mondo) nel pieno della crisi, semplicemente stando in piedi in fila per prendere un aereo? Ovviamente sì, basta cedere alla torbida lusinga del luogo comune e della generalizzazione.

AEROPORTO LEONARDO DA VINCI – FIUMICINO
Se cominciamo subito a fare gli snob, o a criticare a tutti i costi, dalla partenza, non se ne esce più. Alla partenza non accade nulla. A parte il fatto che nessuna persona che lavora nel turno serale a Fiumicino, ha la più pallida idea di come sia fatto lo scalo.
Io e il mio compagno di viaggio ci dirigiamo mestamente dove indicano con precisione le frecce, ovvero, là, dietro ai cessi.
Troviamo i discendenti di qualche invasione barbarica, rossi di sole, che stanno svaccati in attesa del grande uccello di ferro che li riporterà in Gallia. Beati loro che partono. Per sempre. Nessuno porta uno straccio di souvenir. È perché hanno visitato la peggiore nazione occidentale del mazzo, ed è stato TUTTO orrendo, a parte le cose che non puoi riportare a casa, tipo il clima.
Torneremo qui a fine viaggio, trovando tutto chiuso alle 10 di sera, il guidatore del bus che ci accoglie rispondendo con schietta simpatia alla nostra pretestuosa domanda:
-Volete tornà a Roma? Eh… Roma, Roma… Roma un cazzo.
La navetta se pia là. Dove ce sta la scritta.
Guardiamo. Non vediamo. Poi capiamo: per terra, in caratteri klingon, c’è scritto “shuttle”. Certo, il Columbia, è il nostro primo pensiero. In quel momento, per la prima volta nella mia vita, mi scopro avido di Dio.
Fuori dall’aeroporto con gli shop chiusi (il messaggio subliminale è: sei arrivato in Italia: chi cazzo se ne frega”) troviamo tre utili cartelli  per orientarci:
• jackpot del Supernalotto aggiornato in tempo reale (trying your look, sembra dire)
• pubblicità di un SUV (aspetti un mezzo pubblico? fai prima a comprarti una macchina)
• festa del PD a Torino (utile saperlo)
• spettacolo teatrale che racconta le peripezie di una squillo (mettiamo le carte in tavola).

AEROPORTO CHARLES DE GAULLE – PARIGI
Dopo circa un lustro di miei discorsi celebrativi riguardo questo aeroporto, finalmente ho modo di servirmene. Ho dato il tormento a tutte le persone a me più care, a proposito di questo. “È un luogo dove design e architettura e organizzazione trovano la loro naturale congiunzione. Quel nome li, poi, richiama la grandeur che tutti noi abbiamo sempre desiderato, ma non abbiamo mai osato chiedere. CHARLES DE GAULLE, cazzo”. E gli occhi mi scintillavano di un brillio audace e malvagio. Il mio compagno di viaggio, un piccolo aristocratico di campagna che mi fregio di definire il più nobile dei miei amici, vorrebbe morire, piuttosto che sentire questa manfrina un’altra volta.  Il De Gaulle è enorme, e prigioniero di alcune incomprensioni linguistiche pericolosissime. Ad esempio, non ci sono i «gates», perché i francesi hanno ritenuto opportuno utilizzare qualsiasi altra parola inglese, meno quella giusta, «gates», appunto, per indicare i gates. Si respira un terrore sommerso, il genere di panico emanato dagli esseri umani, quando non possono mettersi a urlare. È ora di cominciare lo studio. Per prova, chiedo aiuto ad un inserviente in pausa con gli amici. È sicuramente un emigrato di seconda o terza generazione, magrebini, o cose del genere. Stanno al bar, e succhiano tea come fosse Algeri. I francesi non rispondono mai ad una domanda in inglese – loro amano che implori nella tua lingua. Questi francesi, è chiaro, hanno un altro motivo di rancore verso di noi: siamo bianchi benestanti in vacanza. Ciancicano una risposta che non ha senso in nessuna lingua del mondo, e tornano a bere tea, vagheggiando di dare fuoco a macchine nella banlieu e del sogno panarabico, ma senza Lawrence d’Arabia. Buco nell’acqua, serve il sistema “kalos kai agathos”, “belli, dunque buoni”, come dicevano i greci. Fermiamo il più bello di tutti: un ragazzo di colore con il suo perfetto completo della British Airways, il nodo della cravatta e la camicia inamidata rasentano l’iconicità. Lui è perfetto come un portiere del calcio che ha fatto successo come modello di Armani: con forza e semplicità disarmanti, piene di dignità e futuro, ci indica la strada. Dettaci la linea, gigante!

AEROPORTO TEGEL – BERLINO
Mentre svolazziamo in cerchi concentrici sulla terra promessa, la sana Germania, pregustiamo il senso di ordine e l’asciutta cordialità che ci aspetta poche centinaia di metri più giù.
Ormai a terra, e puliti anche secondo i controlli tedeschi, vogliamo fumare una sigaretta. Troviamo uno spiazzo enorme, che il genio logistico tedesco ha lasciato intonso: una spianata di cemento e asfalto di almeno cinque chilometri quadrati. Vuota. Accendiamo le sigarette e ci congratuliamo con noi stessi. C’è del compiacimento. All’apice del rilassamento autoreferenziale, piomba su di noi la carnificazione dello spirito della nazione tedesca, sotto forma di grassone barbuto, urlante come una valchiria. È villoso come uno visigoto e la sua camicia è sporca di unto e grasso. Ci urla che in «tutto il mondo (all over the world) è vietato fumare, in qualsiasi punto di qualunque aeroporto – per sempre, anche nel futuro più remoto». Argomentiamo timidamente che non è vero, e che il posto dove siamo non è l’aeroporto: è “niente”. Forse a causa del nostro manicheo bizantinismo, il luterano s’incazza veramente. Noi, molli latini, inclini alla lascivia del dialogo, più che alla stringente meccanicità del logos, ci mettiamo a correre, scappando. Al parcheggio degli autobus ci aspetta il nostro complice, seduto accanto ad una coppia di sovrani africani in abito tradizionale. Perché qualsiasi africano con la tunica variopinta tu incontri in aeroporto, è bene saperlo, è come minimo il re della Namibia. Che poi sia in Europa per fare il commercialista, non è altro che segno della perversione del mondo.

SHOEGEN – AMSTERDAM
Ci fermiamo, come una coppia di giovani giaguari in una nuova giungla. Sentiamo subito una vibrazione diversa. I nostri sensi interiori lo percepiscono a livello subliminale, come in un ricordo genetico: qui non c’è panico, qui non c’è paura. Qui c’è pace. Addirittura, i viaggiatori sono vestiti bene, come fossero sicuri che un viaggio non è una estenuante ricerca, ma un semplice spostamento da un luogo fisico ad un altro. C’è una strepitosa modella, sarà alta un metro e ottantacinque, in un vestito da sera audace e tigrato – ha lineamenti asiatici. C’è un business man che fa sembrare il Beckham del mondiale in Sud Africa (quello in completo grigio ghiaccio) un povero sgraziato pezzente. Ci sono le olandesi in hot pants, con i loro capelli color paglia sistemati in acconciature fiamminghe, come se stessero per andare al club, non al check in. Sono tutti bellissimi. Forse non sono belli. Forse è la mancanza del panico e della disperazione e della disgrazia, a farli sembrare tutti attraenti. Ci mettiamo in fila. Non è tutto bello come sembra. Chiediamo alle hostess di terra dove è possibile… e loro troncano la conversazione: terzo piano. Possiamo solo andare al terzo piano. E ce lo dicono con l’aria di quelli che ti invitano ad una festa e, vedendo quanto sei sporco e povero, ti spiegano che tu non puoi girare liberamente per la loro casa, che metti in disordine. Il mio amico aristocratico sibila, in un inglese gelido e chiarissimo come un’alba in un campo di sterminio:
«Be gentle, with us, please,
because you can live
selling Amsterdam flowers in Rotterdam
and then buying them again from Amsterdam,
but you know, it is not a business that cannot go on forever.»
Ci mandano nel lounge al terzo piano.
Ci sono altre due hostess. Sono incredibilmente grasse. Capiamo immediatamente il perché: interagiscono con gente che torna nei paesi mediterranei, e noi meridionali siamo ancora tanto legati alle vecchie divinità matriarcali, rubiconde veneri della fertilità. Siamo fatti così, e così loro pensano di rassicurarci con le matrone. Così stiamo buoni.
Fanno la comparsa i cinesi. Che con gli altri sono piani ed inespressivi, mentre tra di loro scherzano, giocano, fanno espressioni, chiacchierano e bisticciano. Ma quando parla la donna più anziana, che non casualmente somiglia a Mao, stanno tutti zitti, perché un impero millenario, lo basi anche su queste cose, mica solo sui guerrieri di terracotta. Che differenza, ci diciamo, con il muto autismo dei Giapponesi, che amano tutto perché hanno paura di tutto, e si aggirano per l’Europa terrorizzati da ogni cosa, ma soprattutto dalla possibilità di un contatto diretto con uno di noi europei, così brutali, così violenti, così imprevedibili, così irruenti. Disabituati alla schiettezza di un pensiero non circolare, ci trattano come noi trattiamo con i gruppi di inglesi workingclass che abbiamo incontrato, sciamanti ovunque: muto terrore. Non fare nulla che possa irritarli, non guardarli, potrebbero darci un pugno. Guarda, prendono a calci una bicicletta. Zitto, non facciamoci individuare.
Nell’ultima coda, l’ultimo assaggio di umanità: la principessa Fiore di Loto della Luna Candida. Forse viene da Taiwan, forse da Singapore o Honk Kong. Mentre aspetta in fila con i suoi enormi e sgargianti bagagli, rutta aglio e sputa per terra – brutta abitudine, chiosa il mio compare, se ce l’ha un milairdo di persone. Paese che vai, usanze che trovi.

DALL’ALTO – ITALIA
Una immonda accozzaglia di ruderi e palazzoni, stratificati uno sull’altro, generati da un potere che non è mai stato tale.

DALL’ALTO – FRANCIA
Un posto normale, illuminato bene. Dall’alto le ossessioni non si vedono.

DALL’ALTO – GERMANIA
Un luogo ameno, dove l’esigenza di ordine e pianificazione, richiesta dallo sviluppo, ha solo consigliato di mettere bene le cose, ma senza snaturare un territorio verde e rurale. A vederli così, da 10000 piedi, diresti che è gente incapace di torcere un capello ad una mosca.

DALL’ALTO – OLANDA
La scena dei thriller in cui i detective aprono il diario del serial killer: guarda che ordine.

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