Marco Simoncelli

di Luca Riposati

 

A proposito di morte, ascoltando My Old Flame di Miles Davis.

 

Ogni tanto le ruote perdono aderenza per qualche decimo di secondo, e vieneda dire “you got your mucky wheels burning, and it’s all right”. Si compie un suicidio/omicidio in pista. Scorrendo il solito stream, continuo ormai, del social network, saltan su le considerazioni, le frasi di giovani donne che, sorprendentemente, sembrano aver molto chiaro il loro ruolo nella vita. Forse è solo una questione di attitudine, forse è più profondo. Nella parte fortunata del mondo i ruoli si mischiano, e le segregazioni di genere cadono, sotto i colpi della quotidianità. La nostra differenza, quella tra sessi, è più forte delle mere questioni di economia domestica, robe da cacciatori e raccoglitori, mentre inaspettatemente, davanti alla morte, riemerge la differenza, unificante, tra maschi e femmine.

Le donne sono le detentrici del monopolio della vita, de facto. Forse per la lunghezza della gestazione, le femmine di Sapiens Sapiens hanno chiarissima la responsabilità della nascita e della costruzione di un nuovo individuo, carne dalla carne. Un senso di accorata affezione, molto difficilmente riscontrabile negli uomini. A livello intimo, ancestrale, i maschi sono ignari della loro partecipazione e questa rimane una scoperta tutt’ora recente.

La prima madre che rivelò incautamente, ponendo fine al matriarcato, come funzionava la procreazione al figlio maschio. Qualcosa che si apprende non è qualcosa di innato, e per quanto sia stato appreso profondamente dagli uomini ciò rimane sempre qualcosa di nuovo, quasi di qualcun altro. La conseguenza è immediata: mentre le donne hanno un preciso senso della vita e di quanto essa sia preziosa e complicata, gli uomini vedono davanti a sé solo la morte. E inventano il divertimento. Vuol dire “togliere lo sguardo da”.

Nel particolare, togliere lo sguardo da quanto sia finita la propria esistenza, e quindi i maschi inventano i giochi. Le giostre, le gare, forse la guerra stessa, i duelli. Si accapigliano per cose sciocche ed eroiche. Gli uomini non partecipano alla vita se non per arrivare alla morte, inconsapevoli della loro parte nella creazione della vita. Gli uomini si creano dei divertimenti, delle alternative, danno all’esistenza una dimensione ludica. Al valore della vita, viene sostituito il gioco del live fast and die young, dell’autodistruzione – esorcizziamo la morte.

E nei commenti del 2011 delle donne, a proposito di questo giovane che si è messo irresponsabilmente in pericolo, si vede perfettamente la differenza con le parole dei maschi, che sembrano riconoscere, dopo 20000 anni di civiltà umana, una bellezza eroica, un lutto pacifico, a questa morte avventata a giocosa. Le une cercano di convincere gli altri, di responsabilizzare questi maschi – eterni giocatori che mettono sul piatto un’esistenza comunque destinata al nulla – a proposito della serietà della vita. Questi cercano di convincere le femmine, invece, del senso, lirico ed estetico, dell’autodistruzione.

Nessuno convincerà mai nessuno, ma ci capiremo, forse, a metà strada, in the name of love, nel senso più naturalistico del termine.

Al giorno d’oggi, se ogni segregazione di genere appare inutile e violenta e gretta, d’altra parte a livello esistenziale sembra affascinante, insostituibile, dolce, questo dimorfismo sessuale del sentire, un ossimoro che rende strepitosamente irresistibile stare al mondo. Non è bella, non è attraente, invece l’omologazione del senso comune maschile e femminile. Per le persone che si riconoscono senza conflitti nel sesso di nascita è questo il più delizioso degli antagonismi.

Il dimorfismo permane, vitale, violento. Ci fa ricomporre ogni volta, da generazioni, al momento del dunque. Da esemplare maschio, capisco intimamente – e razionalmente lo capiranno anche tutte gli esemplari femmine che si soffermeranno a rifletterci – il respiro tragico della vicenda. La gioia di una morte giovane cara agli dei, nel pieno delle gesta desiderate. Un traguardo virtuale, la voglia di superare gli avversari, una (c)attività completamente inutile, fine a se stessa, ma che va pur fatta, ineluttabilmente.

Ci sono morti odiose perché non fanno parte delle circostanze, come un incidente stradale, o una morte sul lavoro. Poi ci sono morti ovviamente né desiderate né cercate, che non generano altro che dispiacere e rassegnazione perché se ne riconosce la differenza. Il rammaricato disprezzo, la riprovazione e l’orrore delle donne che guardano la scena, la giovane modella con le lunghe dita lungo il volto perfetto è il contraltare inevitabile ad una morte maschile, incompresa e censurata.

Una incomprensione piena di pathos che nessuna modernità è riuscita ad estirpare, e che descrive perfettamente come funziona questa specie. La morte è la casa comune in cui mettiamo i piedi e in cui continuiamo a non capirci, vivendo stretti gli uni alle altre.

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1 Comment

  1. wanaxa ottobre 27, 2011 Reply

    Il tempo è solo un inganno della nostra percezione.
    “Agonizzanti in un letto a molti anni da oggi” tutto il tempo che sarà trascorso dal fatale incidente del Sic ci apparirà solo come un battito di ciglia.
    E se mai ci ricorderemo di una giovane promessa del motociclismo, solo parzialmente mantenuta, e se decideremo di dedicare il nostro ultimo flato alla ponderazione di simili argomenti, dovremo riconoscere che nulla ci ha mai separato da lui; che la grande “materna” illusione della preservazione della vita, l’imperativo volto a preservare la parte senziente dell’Universo sono dettati meramente da un cocktail di ormoni.
    Ciò che ci rende “senzienti” per l’appunto, diversi dagli animali, è semplicemente nel grado di raffinatezza con il quale mascheriamo i nostri istinti, talvolta sublimandoli, tessendo legami e prefigurando interazioni, cercando, in una parola, un senso.

    Trovato quel Senso, poco importa il numero di decenni che ci mancano da vivere… giunto sul letto di morte, anche ad un ultracentenario pungerebbe vaghezza di sostenere di non aver vissuto abbastanza: è l’istinto che parla.
    20, 30, 80, 105… sono numeri così vicini fra loro e diventano una nullità di pari magnitudine se rapportati alla storia dell’Universo della quale facciamo parte e della quale -in quanto esseri umani- siamo vagamente più coscienti degli animali: quello che conta per ogni singolo essere umano non è aggiungere frazioni infinitesime di eternità ai propri giorni, ma solo la consapevolezza, di essere vissuto per qualcosa.

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